Avere un figlio dopo anni di ricerca e di perdite è spiazzante o, almeno, lo è per me.
Non ho parlato della cosa con altre mamme con il mio stesso percorso perché quando poi arriva un figlio diventa tutto così frenetico che ti soffermi molto poco sulle tue sensazioni. E quando sei con le altre mamme fai solo incipit di discorsi a tema lavaggi nasali, areosol, nido e metodo montessoreta.
Insomma, è tutto l’opposto di quando vivi anni di infertilità di pancia, di coppia, di vita. Gli anni infertili sono anni passati ad analizzare il tuo corpo. E non solo fisicamente con tutte le visite più o meno invasive e invadenti a cui ti vuoi e ti devi sottoporre. Sono anni di indagine psicologica, spirituale e mentale. Anni di strufugliamenti di ogni più piccola piega e piaga tua, del tuo compagno, di voi due insieme. Anni di perché e di però e di se e di chi lo sa. Di ma se poi, di boh. Di tanti boh.
E quando il figlio arriva quegli anni infertili sono la tua storia. Hai tuo figlio fra le braccia eppure quella sensazione c’è ancora. Quel formicolio alla bocca dello stomaco, quel formicolio da pancia vuota che non ti fa addormentare subito, per quanto stanca tu possa essere.
C’è ancora, in mezzo alle mamme più fortunate, quel sentirti un po’ differente da loro. Perché la vita che ti ha portata a essere lì con loro è stata meno carina con te, e tutta la sofferenza di quegli anni è un nervo ancora scoperto.
È quella stessa sofferenza che fa venire gli occhi lucidi alle mamme che, come te, sono state meno fortunate, quando vedono tuo figlio.
È quella stessa sofferenza che fa dire loro, ma ti ricordi quando? e questo? e quello?
Sì. me lo ricordo. Ci ricordiamo tutto.
Gli anni infertili te li ricordi tutti. Mese per mese. Giorno per giorno.
Se c’è il sole e il tuo infante non ha qualche morbo impestante, beh, allora uscite di casa immediatamente. Portatelo al mare, se potete. Correte a più non posso. Fate i matti.
Perché poi succede che da un istante all’altro questi piccoli esseri umani inizino a tossire e a produrre quantitativi esorbitanti di moccico. Iniziano a fargli male le orecchie, a diventargli gli occhietti rossi, a scottare come la sabbia in spiaggia a luglio all’ora di pranzo, ad avere i cognati e gomitare, con tanto di squaraus.
E allora finisci dritta dritta in un loop spazio temporale che farebbe sclerare pure i folletti del fantabosco. Accipigna!
Dopo una settimana di clausura scandita da lavaggi nasali, somministrazione coatta di farmaci e areosol, nanne core a core calienti e sudaticce, apprensione e auscultazioni di respiri alla darth vader, osservazioni attente dei movimenti del torace, che il broncospasmo fa davvero paurina, mi sento così, così che nemmeno lo so descrivere.
Ci si sente svuotati e prosciugati di ogni linfa vitale.
Mantenere la calma è difficilissimo.
Hai voglia a guardarti tutte queste mamme terapeute che predicano l’educazione rispettosa e positiva nella calma.
Alla ventesima volta che ti chiede l’acqua, o, come nel mio caso, “l’agua,” (no, non abbiamo la tata che gli insegna lo spagnolo come quel che resta dei Ferragnez) per poi sputarsela addosso bagnandosi anche l’ultimo body pulito, ti trattieni a stento dal rinchiuderlo in dispensa. al buio.
Ti fermi un attimo e ti rimembri ancora quando la maestra dell’asilo ti chiudeva nello sgabuzzino per punizione, ti ricordi che non è che fosse tanto friendly come education, ti ricomponi e te lo stringi tra le braccia e con amore lo cambi e gli infili a forza un bodino dei mesi passati e ora il piccolo untore ti gira per casa, più scollato di JLo, con i candelotti di moccico al naso, sputazzando agua in ogni dove.
Le lotte per i lavaggi nasali sono un corpo a corpo che ti lascia dieci minuti al knock out, vorrei però far sapere al Dottor Olivieri che resisto e non mollo.
Stendiamo un velo pietoso sulle sessioni di areosol. Pietosissimo.
E poi, quando loro magicamente guariscono, tu puoi tornare alla vita normale. E lavorare il triplo per recuperare tutto il tempo andato.
In questa foto vediamo una donna e un uomo che sorridono; forse ridono.
Sono seduti al tavolo di un ristorante o di un’enoteca, a giudicare dalla parete di bottiglie alle loro spalle.
Dalla prospettiva dell’inquadratura si direbbe un selfie. I due sembrano a loro agio. Sembrano felici, o, almeno, per quanto ci è dato sapere, sembrano esserlo in quel momento.
Lavorando un po’ di fantasia è semplice immaginarli finire quella cena condividendo un dolce, far finta di bisticciare per l’ultimo boccone, passeggiare sotto braccio, dirsi cose leggere e calde di vino, fino ad arrivare a casa o, che so io, in albergo.
Probabilmente si baceranno e faranno l’amore.
Ma si sa, la realtà supera di gran lunga l’immaginazione, e quello che non possiamo vedere dalla fotografia è che solo l’uomo sta bevendo un calice di vino. Sul tavolo non c’è nessuna bottiglia da condividere. La donna non ha ordinato molto da mangiare, ha la pancia gonfia e un pensiero fisso che cerca di scacciare via con quel sorriso che si impone, per non lasciarsi sopraffare. L’uomo la asseconda e il suo sorriso è ancora più grande, deve accogliere e sostenere quello della sua compagna.
Quello che la fotografia non ci mostra è un passeggiata piuttosto silenziosa verso la camera del solito B&B; è l’uomo che si metterà nel netto ad aspettare che in bagno la donna si faccia una doccia, perfezioni la depilazione integrale delle parti intime, si faccia una profonda lavanda vaginale, un simpatico clistere e che tiri lo sciacquone sopra quella cena, sopra quel vino che non ha bevuto, sopra quel pensiero fisso. La donna si sdraierà accanto all’uomo e si abbracceranno. Dormiranno poco. Non faranno sesso.
La mattina presto l’uomo e la donna entreranno in clinica e lì l’uomo avrà finalmente il suo orgasmo, in un bagno asettico, stando ben attento a eiaculare dentro a un contenitore sterile.
La donna nel frattempo verrà sedata e portata in sala operatoria dove le verranno prelevati tutti gli ovociti che sarà riuscita a produrre in quel ciclo di pma (procreazione medicalmente assistita ).
Tutto quello che non possiamo vedere in quella fotografia è tremendamente invisibile.
L’infertilità è invisibile.
Nessuno che non ne sia interessato vuole sentire delle storie come questa, delle notti senza sonno, delle sofferenze di corpi e teste.
L’infertilità è invisibile, non si può immaginare quanto possa essere devastante per quelle donne e quegli uomini che, come quelli della fotografia, cercano di restare aggrappati a un sorriso.
Un problema invisibile, un iceberg che vede solo chi ci resta incagliato.
L’infertilità è invisibile e quindi è facile non parlarne.
La disciplina che regolamenta la pma è demandata alle singole regioni.
E così succede che nella mia regione le coppie possano accedere con il servizio sanitario nazionale a soli tre tentativi di pma fino ai 43 anni di età compiuti, mentre altre regioni hanno tentativi illimitati fino, invece, ai 46 anni. Tutto quello che vuoi tentare terminata la concessione del ssn te lo devi pagare euro su euro, e, messi insieme, sono tanti, a volte troppi questi euro. Succede che i fondi di alcuni centri finiscano e vengano interrotte e posticipate le procedure di fecondazione. Succede che alcune regioni impediscano ai residenti di accedere alla pma in cliniche fuori regione, cliniche spesso migliori e senza liste di attesa. Succede che se devi accedere a procedure che comportino la donazione di gameti in tempi ragionevoli, se sei single o una coppia non etero, tu debba proprio espatriare.
Succede che diritti diventino privilegi ma l’infertilità, dicevamo, è invisibile, e allora è più semplice non parlarne.
Persino chi la vive preferisce non parlarne, sì, perché l’infertilità ti fa sentire malato, sbagliato, rotto, inadeguato, sfigato, eternamente triste e piagnucoloso, fastidioso perfino da frequentare, qualcuno da compatire. E quando la stai vivendo la tua vita è fin troppo incasinata per pensare di sollevare un polverone politico circa le troppe differenze di trattamenti sanitari.
Però bisogna farsi sentire perché avere uguali condizioni per chi desidera avere un figlio è un tema politico che va affrontato a voce alta e ben udibile.
Vivi anni, tanti che ormai hai perso il conto, cercando una gravidanza. Il pensiero che potresti non sapere mai come sia la faccia di tuo figlio, ti martella in testa come il ritornello di una hit estiva. Latino americana.
No, no es amor
Lo que tú sientes se llama obsesión
Una ilusión en tu pensamiento
Que te hace hacer cosas
Así funciona el corazón
Le tue giornate hanno tutte lo stesso gusto un po’ amaro di cose perdute. Tu e la tua diagnosi di infertilità (o, peggio, tu e la tua situazione “sine causa”) convivete da così tanto tempo che ormai vi sostenete a vicenda.
Lei ti tiene sempre in tirella. Se ti vuoi riposare e fermare un attimo a riprendere fiato la tua infertilità, il tuo problema, la tua croce, ti fa toc toc sulla spalla. Hei, ti sussurra, forza che devi ancora fare quel duecentosessantesimo tampone! Forza! Che abbiamo la decima isteroscopia eh! Se la facciamo ci regalano in omaggio un mese di lavaggi endometriali! Altro che week end alle terme! Vuoi mettere?
Insomma dopo aver affrontato incalcolabili, tanto numericamente quanto economicamente, esami, terapie, stimolazioni, pick up e transfer, e ancora e ancora, in una spirale senza capo né coda, tu sei diventata quella cosa lì.
Tu sei il tuo problema. Lo sei per te e lo sei anche un po’ per gli altri.
Tu vivi in funzione della tua infertilità.
Lei non ti da niente e tu le dai tutto.
Le dai i tuoi anni, quelli belli, quelli in cui dovresti goderti al massimo la vita di coppia perché siete ancora dei giovanotti, o meglio, lo eravate quando tutto questo è iniziato. Adesso siete vicini alla mezza età e siete stanchi, così stanchi da non riuscire a ricordare nemmeno come si faceva a essere felici, felici davvero.
Le dai il tuo tempo, ipotechi quello lavorativo e pure quello libero. Cerchi continuamente di capire cosa ti conviene fare sul lavoro per riuscire a sottoporti all’ennesima visita a duecento chilometri da casa, se prendere malattia, permesso, ferie, sasso, carta, forbice! Pure le ferie le devi incastrare nei tempi giusti, tra una stimolazione ormonale e un prelievo ovocitario. Ma ste benedette punture me le faranno imbarcare nel bagaglio a mano? Ma devono stare in frigo? E come facciamo a partire? Non partiamo, dai, sarà per un’altra volta.
Le dai tutti i tuoi sogni. Sì, perché di sogno te ne è rimasto uno solo e tutto quel che fai lo fai in funzione di quell’unico sogno. Hai smesso di bere, di fumare, di mangiare junk food, di divertirti sul serio.
Le tue endorfine sono al minimo storico e quel sogno inizia pure a starti un poco antipatico.
Tu sei diventata tutta infertile, per quanto ti sforzi di continuare a vivere quel pensiero e ti illuda pure di riuscirci alla grande, in realtà quel ritornello fisso in testa ti limita in ogni passo tu voglia fare.
No, no es amor
Lo que tú sientes se llama obsesión
Una ilusión en tu pensamiento
Que te hace hacer cosas
Así funciona el corazón
Ogni decisione ruota intorno alla procreazione. Anche un cazzo week end fuori porta va organizzato come una missione della NASA. Potrebbe coincidere con l’arrivo del ciclo che implica l’inizio della stimolazione o con il post transfer e allora sarà il caso di svagarsi o mi faranno male? O con checcazzo scegliete voi che ce n’è a bizzeffe di ragioni validissime per rovinarci anche questo viaggino.
Il fatto, care compagne di sventura, è che questa infertilità di pancia e di cuore, che ormai ci ha caratterizzato per anni, se ne resta lì anche dopo che il sogno si è avverato.
Hai il tuo bimbo e, all’improvviso, tutto quel gran da fare che avevi a incastrare e organizzare e metterti continuamente alla prova, pouff, svanisce.
E tu vacilli perché non sai più tanto chi sei. Tu, ormai, eri quella cosa lì. Lo sei stata per anni. E adesso ti devi ritrovare.
E farlo con un esserino che dipende in tutto da te può non essere proprio facile.
L’infertilità è un’erbaccia infestante e inestirpabile nel prato verde della nostra vita.
No, no es amor
Lo que tú sientes se llama obsesión
Una…
E Mò basta però eh!
Ma ‘ste creature non si dovevano trovare sotto ai cavoli? Mannaggia a loro, mannaggia.
Sono una mamma. Anche se ho smesso di allattarti e ti preparo il biberon con il latte del barattolo. Sono una mamma. Anche se mi concedo un bicchiere di buon vino e cerco di ritagliarmi degli spazi, piccoli, molto piccoli, ma che siano solo miei. Sono una mamma. Anche quando chiudo la porta della tua cameretta e sono felice che finalmente ti sia addormentato. Sono una mamma. Anche quando dico al tuo papà voi iniziate ad andare che io vi raggiungo e in quella mezz’ora da sola, in silenzio, a casa, mi sento così libera come non succedeva da quando sei nato. Sono una mamma. Anche quando mi incasino con gli orari di latte, fruttino e cazzo brodo vegetale e al posto del liofilizzato metto l’omogeneizzato e tu piangi perché hai già di nuovo fame e il latte non è ancora pronto. Sono una mamma. Anche se, a volte mi capita ancora, per controllare se respiri ti appoggio una mano sul petto e disturbo il tuo sonno così profondo e insieme leggero. Sono una mamma. Anche quando oggi il bagnetto lo facciamo domani. Sono una mamma. Lo sono da tanto, da molto prima che tu decidessi di arrivare in questo mondo matto. Lo sono con tutta me stessa. E cerco di fare la tua mamma, cerco di mettere via la paura, ti prendo le manine, le metto sulle mie guance. Tu mi fai un sorriso gengivoso. Sì. Mi riconosci. Sono io. Sono la tua mamma
Quando arriva Natale e tu stai cercando un figlio che non si fa trovare, ogni cosa che tu faccia è ricoperta da uno strato di polvere. Tu fai comunque tutto quello che si deve fare. Ti immergi nelle vie del centro, hai tra le mani la lista dei regali da comprare, mamma, papà, sorelle, fratelli, nipoti, figli degli amici, che ogni anno ti sembrano aumentare a dismisura, tipo Gremlins sotto la doccia. fai le code nei negozi, buona buona. E te ne torni a casa con tanti pacchetti per le mani e un sacchetto di pietre sul cuore. Ti pulisci, con un gesto distratto, la polvere che ti sporca le le spalle, sfoderi un sorriso perché a Natale nessuno vuole vedere facce cupe, e riesci perfino a comprare un sacco di lucine colorate, tantissime lucine colorate che appenderai ovunque.
Se tu sei opaca, polverosa e non riesci a brillare che almeno lo faccia la tua casa.
Cene, aperitivi, apericena e cazzo brunch natalizi e tu non te ne perdi uno, trucchi il viso e ti metti pure un cerchietto con le corna di renna e i campanellini.
Addobbi quel vuoto che hai nella pancia che neppure il panettone al pistacchio da duemilaottocento calorie a fettina riesce a riempire.
Ti piazzi il ghigno di Joker sul muso e ti vivi le feste, in qualche modo ci riesci, ci riesci sempre.
A volte nemmeno un po’ di vino ti può consolare che sei nel bel mezzo di una stimolazione ormonale o in un post transfer di embrioni e ce la fai comunque, tutta da sola, all by myseeeeelf.
Sei opaca e polverosa, sì, ma ci sei per tutti, costruisci pure la qualunque con quei maledettissimi, innumerevolissimi, mattoncini lego per non delidere i tuoi nipoti e superi, tutto sommato, dignitosamente pure la befana.
Sei acciaccata inside ma sei più coriacea della statuina del fornaio che nel tuo presepe riesce a sfornare da decenni la pagnottella con un solo braccino che l’altro glielo hai rotto quando eri bimba e nessuno è mai riuscito a riattaccarlo a dovere.
Arriverà, lo so, anche il tuo di Natale felice, senza un grammo di polvere. Capirai prima o poi il percorso che ti ci porterà.
Il mio, dopo sei anni, quattro transfer e innumerevoli sfortune, è questo qui.
Sotto l’albero ci sono anche i sacchettini pieni di pietre dei natali passati, ci saranno sempre, mi hanno portata a te. Gnometto con le calzette buffe.
Siete incredibilmente toste, donne alle prese con l’infertilità, più del torrone bianco. Non quello tenero eh.
Per quanto un figlio sia stato voluto, cercato, sognato, desiderato (e so bene di cosa parlo), ogni mamma ha il sacrosanto diritto di sentirsi stanca, esausta, impaurita, piena di dubbi che nemmeno potete arrivare a immaginare, bisognosa di aiuto.
Trovarsi giorno e, soprattutto, notte a tu per tu con il neonato piangente, rigurgitante, proprio vomitante tipo Regan dell’Esorcista, colicante, non cacante, puzzolente di latte rancido altro che quanto è buono l’odore dei bambini, and so on, non è per un piffero semplice.
Una neo-mamma cerca conforto nelle altre madri.
Non ho mai pensato di poter arrivare ad adorare i gruppi whatsapp, la chat “corso pre-parto” è manna e ambrosia, nutrimento dei dii per le mie ansie. Sapere che altre mamme si stiano chiedendo se la cacca verde o gialla sia o meno segno che il tuo bimbo esploderà entro i prossimi cinque minuti, o se il fatto che diventi rosso come un pomodorino cencentrato ed emetta versetti satanici sia plausibile, beh, ti rimette al mondo.
Guardi questo cucciolo d’uomo che occupa ogni istante della tua vita, della tua testa, delle tue braccia, e cerchi di fare appello a tutte le informazioni che hai raccolto e che chiunque si è sentito in dovere di darti nei nove mesi precedenti e pensi che non riuscirai mai non solo a crescerlo decentemente ma proprio a vederlo crescere. Temi il fatal error.
Poi succede che, in qualche modo che ha molto a che vedere con la magia, scopri che ci riesci. Scopri che puoi sopravvivere a cinque minuti di sonno in una intera notte e avere ancora un barlume di decoro. Scopri che puoi sbrigare qualsiasi faccenda con un braccio solo che su quell’altro ci ha preso la residenza l’infante. Scopri che puoi pure gestire l’ansia da sids e addormentarti con lui pancia su pancia. Scopri che sai gestire benissimo tutte le questioni legate all’ allattamento… no, scherzo, le tette e il latte, pure quello in formula, sono un mistero insondabile che tale resterà anche per te, ma impari a mungerti come una mucca e a far funzionare le cose.
In tutto questo delirio dei primi mesi i padri ci provano a rendersi utili, e ci sono quelli più portati, altri lo sono meno ma che importa, che che se ne dica i primi tempi il bebè trova solo nella mamma una continuità con la vita uterina, il tuo respiro, il tuo battito, lui già li sa. Ha avuto mesi per impararli alla perfezione e non appena si sdraiano sul tuo petto ti riconoscono e si rasserenano. Questa cosa qua non potrai mai delegarla a nessuno, nemmeno alla tata, ostetrica, puericultrice più esperta del globo terracqueo, nemmeno alla tata Giovanna.
Le neo-mamme non hanno bisogno di sbolognare il piccolino al papà per rivendicare la propria autonomia nonostante tutto e tutti, come ho letto da qualche parte in una visione distorta di ciò che dovrebbe essere il femminismo e la lotta al patriarcato
No. Le neo-mamme vogliono fare le neo-mamme nel miglior modo possibile, vogliono trovare il modo di fare stare bene il loro bimbo. Vogliono che qualcuno glielo guardi e le faccia dormire serene tre ore di fila, tra una poppata e l’altra (che se allatti al seno non è che puoi dire papà io non mi devo far fagocitare dal pupo, scansa i peli intorno al tuo capezzolo e pensaci tu). Tre ore di sonno ti possono svoltare la giornata, sai?
Le neo-mamme vogliono il papà vicino e capire con lui come funziona il loro figlio (ecco, un congedo di paternità di soli dieci giorni ci potete spiegare a cosa serve, di preciso?), vogliono amiche con cui uscire e parlare di qualsiasi cosa tranne che di cacca e coliche e che si prendano in braccio il fagotto e se lo spupazzino facendoti decomprimere ridere e, finalmente, gesticolare con tutte e due le braccia. Vogliono affetti che ti arrivino in casa con tupperware colmi di polpette al sugo super buone e vicini che ti invitino a cena e pensino a che cosa ti possa servire prima che tu te ne renda conto. (Io, lo riconosco, da questo punto di vista ho un gran culo).
Vogliono che parlare di depressione post partum non sia solo una moda, perché è tutto così veloce e inglobante che può inghiottire benissimo anche te.
Partecipazione attiva di papà, parenti e amici, quindi, nessun bisogno di scappare da questa avventura, solo la voglia di viverla al meglio delle nostre possibilità.
(Ma perché ste cazzerola di tutine hanno tutti questi cazzo bottoncini che tempo che li hai clippati tutti l’amore di mamma si è già ripisciato tutto il pannolino pulito? Qualcuno me lo riesce a spiegare?)
Neo-mamme, vi voglio bene, così, sconclusionate e bellissime come siete.
È uno di quegli argomenti scomodi che mettono a disagio il nostro interlocutore che, mediamente, di infertilità non ne sa proprio nulla, e se si trova ad affrontare il discorso allora si siede in pizzo alla sedia e inizia a dire frasi a caso, ovviamente sbagliatissime, che fanno piombare l’ingenua nullipara nello sconforto più profondo e le fanno lievitare dalla pancia alla testa un istinto omicida che Jack Lo Squartatore scansati o, già che ci sono, sgozzo pure te.
Non starò qui a elencare le cose che non si devono dire a una donna in età fertile che non ha figli perchè c’è pieno in giro di post e pure di odiosissimi balletti tick tock che ci propinano liste di frasi infelici che subiamo più o meno giornalmente e che, piano piano, abbiamo imparato ad ascoltare e ignorare più o meno allegramente.
Io consiglio sempre di rispondere alle famigerate “io so tutto e ti spiego come rimanere incinta senza pensieri” elencando minuziosamente tutte le disgrazie che ci hanno colpito durante la ricerca della gravidanza. Una specie di sciopero pignolo: la pedissequa narrazione di tutte le rotture di balle che ci smazziamo da anni incalcolabili rallenterà il ritmo vitale del minimizzatore dell’infertilità che da quel momento in poi si guardarà benissimo dal parlare senza prima azionare i neuroni.
Qualche giorno fa mi sono imbattuta in un articolo su facebook che riportava la lettera di una donna che parlava della propria infertilità, di quanto vorrebbe ma proprio non riesce a zittire quella ricerca di un figlio che le sta rovinando la vita.
Tralasciando la gestione e la convivenza con quella grandissima stronza che è l’infertilità, quello che mi ha lasciata basita sono stati i commenti.
Ora, io capisco che quando ci si trova vis à vis si possano sparare gigantesche cacate e dire la cosa più sbagliata che ci sia. ma quando si scrive, perdindirindina, si presume che si attivi un più alto livello di attenzione, quantomento più alto del trogloditese.
Ecco, io mi domando, ma come cazzo fai a dire E perchè non adotti? Ci sono tanti orfani, sai? Esistono le adozioni! Mi fai proprio pena tu donna che vuoi realizzarti solo diventando mamma.
Eppure ho constatato che “Perchè non adotti” è la risposta che va per la maggiore a chi cerca di vincere vergogna, stigma sociale, ta ta ta taboo, parlando della propria difficoltà a procreare.
Un po’ come l’evergreen “Perchè non li ospiti a casa tua” di quando si parla di immigrazione e accoglienza.
Basterebbe così poco.
Basterebbe sapere che cosa comporti un iter di adozione e che tipo di sentimenti e cura ci siano dietro. Basterebbe capire che la maternità è un mondo complesso, che accettare di non potere avere un figlio è un processo doloroso che richiede l’elaborazione di un lutto.
Basterebbe capire che dire basta ai tentativi di procreazione assistita viene vissuto come un fallimento, che serve tempo per fare pace con il proprio corpo che ci ha deluse, ingannate, che ci ha fatto lo sgambetto e il più delle volte non siamo nemmeno riuscite a capire dove caspita stesse il problema.
Basterebbe applicare quello che si predica, perché adottare qualcuno significa accogliere una persona con tutto il suo bagaglio di vita difficilissima, e amarlo.
oppure potrebbe essere anche più semplice.
Basterebbe farsi una enorme padellata di cazzi propri.
Sentirti muovere dentro di me, sentire la vita che scalcia, saperti lì.
Percepirti vivo tra le mie viscere, vedermi trasformata per accoglierti.
Scompaiono i miei fianchi, la pelle si fa tesa come un tamburo che risuona dall’interno, scompaiono i miei piedi che non riesco più a vedere.
Ci sei solo tu.
Tutti i pensieri si concentrano sui tuoi movimenti. Ho voglia di silenzio, voglio imparare ad ascoltarti fin da ora.
Il saperti lì accarezza le mie paure.
Un tuo calcio è la mia pace.
Ti abbiamo aspettato per un’infinità di giorni tutti uguali e di notti con gli occhi aperti, fissi al soffitto, o schiena a schiena con la testa scomoda sopra un cuscino pesante di lacrime.
È stato un viaggio così lungo, così incerto. L’arrivo si spostava sempre un po’ più in là. Ogni volta che abbiamo pensato di essere arrivati ci siamo ingannati ed è stata così dura non potersi riposare. Non poter nemmeno fermare i pensieri.
A imporci un passo diverso è stata la vita, perché la vita ha un percorso tutto suo e tu non puoi mica evitarlo con una scorciatoia. No. Lo devi percorrere metro per metro, per quanto sia buio e pieno di radici fitte e sporgenti che ti fanno inciampare di continuo.
E quando hai attraversato tutto quello che era in serbo per te e sei riuscita a superarlo, allora è il momento di fermarsi, perché le ginocchia e i palmi delle mani a forza di cadere non si rimarginano più tanto facilmente.
Fermati, siediti e tamponati tutti i tagli. Aspetta che si facciano i lividi e che cambino tutti i colori, dal viola più scuro al giallo più chiaro e quando ritorna il rosa della pelle e il bianco della cicatrice allora rialzati e riprendi il cammino.
Più lento. Più consapevole.
Anche se l’arrivo non sai quale sarà, anche se, forse, non sarà quello che avevi immaginato.
Mi è successo di essermi arrabbiata moltissimo con le mie più care amiche.
Non mi hanno riferito che la sorella di una di queste era incinta del secondo figlio, ha partorito e lo ha chiamato Nicolò.
L’ho scoperto grazie a un post su facebook.
E mò chi è questo Nicolò? Mi sono chiesta.
Quando ho realizzato mi sono passati per la testa mille pensieri. Nessuno di questi era il classico Tutte fanno figli tranne me, ero solo molto arrabbiata perché nessuno mi aveva detto nulla.
Perché le mie amiche non mi vogliono dire cose del genere? Cosa pensano? Che sia una povera donna fragile a cui è meglio non raccontare gli incintamenti altrui altrimenti poi soffre?
Mi sono arrabbiata così tanto che le ho chiamate una a una e le ho investite come un caterpillar senza neppure lasciarle parlare.
Non avevo considerato che l’interessata aveva preferito che sua sorella non divulgasse troppo la notizia, che tra lockdown e tutto il resto ci eravamo viste pochissimo e, quando lo abbiamo fatto, abbiamo chiacchierato di tutt’altro. Non avevo considerato altre mille motivazioni possibili.
E allora mi sono fermata, ho inspirato ed espirato e ho razionalizzato.
Non sono gli altri a considerarci diverse, sbagliate, fragili, sfortunate, ammaccate.
Siamo noi che ci sentiamo così.
Certo, ci sarà sempre chi ci farà delle domande sbagliate e inopportune.
Ci sarà sempre chi si aspetterà qualcosa da noi, quella pressione sociale che ci vuole mogli e madri sarà sempre lì in sottofondo (per fortuna sempre meno, la società si evolve, nonostante qualcuno insista nel volerci trascinare nell’alto Medioevo), ma a tutto questo, ormai, abbiamo imparato a rispondere.
Siamo noi a sentirci in dovere di spiegare, di giustificare il nostro difetto.
La parte più difficile da gestire è quella che ha a che fare con noi, con la nostra testa, il nostro cuore e la nostra pancia.
La nostra testa che non smette mai di pensare, e, attenzione, a noi non ci basta pensare a tutto quello che dobbiamo organizzare, perché c’è sempre qualcosa da organizzare, qualche controllo da fare, una visita da incastrare, l’ennesima scusa da inventare per assentarsi dal lavoro, un tamponcino da prenotare.
No. La nostra testa pensa a lungo termine.
Nel dormiveglia le nostre teste lavorano come una centrale termoelettrica a carbone che se ne infischia di Greta Thunberg, e pensano a tutti gli anni che verranno, a quando le nostre possibilità di concepire si esauriranno, e allora, pensano a come sarà la nostra vita. Riusciremo a essere felici o quel sogno disatteso ci mancherà per sempre? E quanto ci potrà mancare? Tanto da pensarci tutti i giorni o magari solo, distrattamente, una volta al mese?
Le nostre teste pensano che a un certo punto dovremmo dire basta perché troppi fallimenti, troppe perdite, troppe aspettative infrante ci potrebbero fare impazzire.
Le nostre teste sono delle maledette Stakanoviste, delle anime in pena, delle masturbatrici mentali rimuginanti e insonni. Io, per esempio, ho sempre in mente l’ultima scena del mio film preferito, Bianca. Il maestro Michele Apicella (Nanni Moretti) si allontana con in mano un profitterol ben confezionato, il migliore di Roma, e, prima che lo portino via, chiede ai due poliziotti che lo scortano se hanno figli, e poi conclude, “è triste morire senza figli”. Fine.
E io ci penso e ci ripenso e penso a come sarà arrivare alla fine e pensare ancora a quella mancanza. Così giusto per dire quanto in là ci possano portare i nostri spensieratissimi pensieri.
I nostri cuori, invece, non fanno ragionamenti. Loro sono tutto cuore e mica ci puoi discutere. Sono quelli che ci fanno andare avanti anche quando sarebbe il caso di dire basta. Sono loro che, magari perdono qualche battito, ma poi riprendono a pulsare forte e ci portano fin dove non avremmo mai pensato di arrivare.
I cuori che soffrono tanto si acciaccano, rimangono cicatrici anche lì, sapete? e noi, di cicatrici, ne abbiamo collezionate proprio tante. Abbiamo tutte delle storie belle toste sulle spalle, ma questi cuori, rattoppati e zoppicanti, continuano a fare il loro dovere. Continuano a battere per noi, nonostante la notte, nel dormiveglia, debbano fare il fight club con le nostre teste.
“Our head bows and our heart is filled with love and joy” c’era scritto sulla bustina della tisana che mi sono fatta ieri sera. Credo che la tisana volesse dirmi di smetterla di pensare a quello che ancora non ho, di bermi un bel sorso caldo stesa sul divano, sotto la coperta arancione, quella morbida, con un gatto sulla pancia e l’altro acciambellato accanto, e di chinare la testa. Di accettare quello che mi sta accade, e di guardare quello che ho costruito fino ad ora. Allora il mio cuore si riempirà di amore e di gioia.
Giuro che ascolterò la tisana saggia e che ci proverò.
La nostra pancia, poi, è quella che elabora tutto il casino che combinano testa e cuore. Tutto passa dalla pancia, tutto quello che affrontiamo lo affrontiamo di pancia. Mica solo metaforicamente, proprio fisicamente. Questa pancia vuota che di riempirsi non ne vuole sapere, noi la detestiamo, la torturiamo con le punture, la facciamo riempire di lividi, vorremmo vederla farsi grande, di mese in mese, vorremmo vedere quella bella pelle tesa e mostrarla al mondo. Vorremmo accarezzarla compiaciute e parlarci, sussurrarle le parole più dolci che esistano.
E, allo stesso tempo, noi quella pancia la curiamo e la coccoliamo, la prepariamo a farsi culla. La pancia che ci dovrebbe rendere madri, che non fa il suo lavoro, noi la dobbiamo preservare, nutrire e difendere.
La pancia delle statuette antiche, il simbolo della fecondità. Le coliche che arrivano quando piangi così tanto da non poterti più fermare. I dolori che preannunciano l’arrivo del ciclo. I dolori del travaglio che ci raccontano così terribili e che noi non aspettiamo altro che poter arrivare un giorno a riconoscerli.
“Le cicatrici sono aperture attraverso le quali un essere entra nella solitudine dell’altro” diceva Frida Khalo.
Noi non siamo sole o strane.
Vogliamoci bene, accogliamoci, parliamoci, ascoltiamoci. Accarezziamo le nostre cicatrici e raccontiamoci le solitudini delle nostre teste, dei nostri cuori e delle nostre pance.